Pubblicato in: Commercio, Devoluzione socialismo, Logistica, Unione Europea

Tav Lione – Torino. Quello che non si potrebbe mai dire. Cui prodest.

Giuseppe Sandro Mela.

2018-11-12.

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Sulla Tav Lione – Torino, così come per la Gronda di Genova, sono stati sollevati immani polveroni, oramai così radicati e vissuti visceralmente  da dimenticarsi del perché siano nati.

La recente dimostrazione Sì – Tav ha portato in piazza quasi trentamila persone. Ma la politica non dovrebbe essere fatta a colpi di piazza né, tanto meno, i grandi piani infrastrutturali dovrebbero essere condizionati da interessi locali.

Se in Italia fosse possibile ragionare, ci si porrebbe il problema in termini differenti: chi guadagna e chi perde dalla costruzione della Tav Torino – Lione, cui prodest la Gronda di Genova?

Immediatamente il problema diventa chiaro, chiarissimo, e la scelta del sì oppure del no appare evidente in tutta la sua portata.

Aiutiamoci con una cartina dell’Europa.

I Pirenei formano una catena quasi invalicabile, che ammette passaggi di traffici solo a nord a San Sebastian, ed a sud a Perpignan.

Le merci generate nella parte settentrionale della penisola iberica trovano via naturale passare da San Sebastian puntando quindi sul nodo di Parigi. Questa direttrice raccoglie anche i prodotti della costa occidentale della Francia.

Le merci generate invece nella parte meridionale della penisola iberica, massimamente la Catalogna, si instradano dalla via di Perpignan. Il problema diventa di nostra pertinenza per il fatto che i confini settentrionali dell’Italia sono costituiti dall’arco alpino: solo galleria lunghe e costose possono consentirne l’attraversamento.

Tre le possibili direttrici.

I traffici diretti al nord Europa imboccano la Marsiglia – Lione – Digione e di qui sono direttamente in Germania. È un percorso già in essere ed efficiente.

Ma i traffici diretti all’Europa dell’est troverebbero sbocco naturale in una direttrice meridionale, Marsiglia – Genova – Milano – Ljubijana – Budapest. Il nodo dei varchi appenninici di Genova diventerebbe immediatamente strategico. Dire sì alla gronda di Genova, autostradale e ferroviaria, significa avocare i traffici di Portogallo, Spagna e Francia meridionale verso l’Europa dell’est. Dire no significa semplicemente lasciare ad altri il lucro che ne deriva.

La terza direttrice consiste invece nella Marsiglia – Lione, già in essere, per passare quindi da Torino e Milano, proseguendo quindi verso l’est. Questa soluzione è alternativa a quella litoranea, è di costruzione più facile, tranne che nel traforo alpino.

Questa cartina ci aiuta a comprendere cosa rappresenti in termini ni traffici e mercati la linea di comunicazione con l’Europa dell’est.

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In gioco sono i traffici con i paesi balcanici passando dal nodo di Budapest. Non solo: di lì si prosegue fino ad Istanbul e di qui al Medio oriente, per non menzionare il nodo di Dimitrovgrad, che mette in comunicazione con il mercato dell’Ukraina e della Russia meridionale.

Né si sottovalutino i nodi di Vienna, con direttrice fino a Kiev, né quello di Berlino, che si snoda attraversa Varsavia, Minsk, Mosca a sud e San Pietroburgo a Nord.

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Gli interessi politici, economici e commerciali sono semplicemente enormi.

Il duopolio francogermanico ha da sempre privilegiato l’asse Marsiglia – Lione – Digione, utilizzando quindi il nodo di Vienna per i traffici con l’est. Dobbiamo anche dargli atto di aver fatto tutto l’umano possibile per bloccare l’itinerario litoraneo e la tratta Lione – Torino, e di averlo anche fatto con successo.

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Ora dovrebbe essere chiaro cosa significhi optare per Tav – Sì oppure per Tav – No.

Chi desidera far guadagnare l’asse francotedesco ed estromettere l’Italia dai traffici internazionali opta per il No – Tav, poi il resto è folklore.


Corriere. 2018-11-11. Sì-Tav, il messaggio dell’onda. Appendino isolata

I primi ad arrivare sono stati gli operai della Fiammengo, restauri conservativi e bonifiche di amianto. «Tanto siamo abituati ad alzarci presto, anche di sabato». Il portavoce si chiama Antonio, e dalla felpa sotto al giaccone rosso da lavoro spunta una spilla di Alberto da Giussano. «Ma che c’entra, qui si tratta di puro buon senso».

Erano le nove di una mattina umida, pozzanghere sui lastroni e pioggerellina fitta. Appoggiate sul davanzale del palco mobile, Patrizia e Giovanna, due delle sette madamìn che hanno organizzato il sit-in, guardavano lo spazio ancora vuoto davanti a loro e si facevano domande. «E adesso che siamo qui? Verranno davvero?». La risposta è arrivata due ore dopo, quando in piazza Castello non c’era ormai più spazio per uno spillo e neppure per la pazienza di una città, spaventata dal proprio isolamento, dalla perdita di una qualunque rilevanza politica. Nelle strade laterali non ci sono pullman di manifestanti e striscioni prefabbricati. La gente scende dai tram 13 e 15 strapieni, si fa largo tra la folla a piedi, senza strilli, senza bandiere di partito, intravisti tra la folla Mariastella Gelmini, Piero Fassino e alcuni deputati leghisti piemontesi, senza rabbia. Alla fine saranno almeno trentamila persone. «Questa volta partecipare è un dovere, un modo per ricordare all’Italia chi siamo», spiega Giacomo, liceale del D’Azeglio.

Quante cose in una sola piazza. La manifestazione «Sì Torino va avanti», gioco di parole per ribellarsi alla fine annunciata della celebre Tav diventata negli anni ossessione e oggi ultimo irrinunciabile baluardo dei Cinque stelle, ha creato una sovrapposizione quasi perfetta tra il livello locale, la ribellione a una poco felice decrescita cittadina, e quello nazionale, un messaggio forte e chiaro contro accordi interni al governo che prevedono la rinuncia a una sola grande opera, quella piemontese, nel nome della salvaguardia del patto di governo.

«Meglio madamìn che badòla» recitava un cartello. Il primo aggettivo ha avuto una certa fortuna. L’ha coniato un consigliere comunale Cinque stelle per le organizzatrici, ignaro del fatto che il termine non è dispregiativo ma indica solo giovani signore sposate con suocera ancora vivente. Il secondo significa stupido, nell’accezione più rotonda possibile. Stefania Cerotti, il destino nel cognome in quanto medico, si era portata da casa un reperto d’epoca, il depliant di Torino 2006, «Passion lives here», ce n’erano tanti in piazza, e molte bandiere con i cinque cerchi, a riprova di una nostalgia diffusa, quando questa città era il posto dove stare. La cartellonistica artigianale aveva toni più netti di quelli che giungevano da un palco così composto da mandare per due volte di fila l’Inno di Mameli dagli altoparlanti. «Grillini retrogradi» ha scritto a pennarello blu su sfondo bianco Riccardo Brignolo, dirigente in pensione di Telecom. Altri erano ancora più espliciti, «Sì Tav, Sì progresso, No 5Stelle».

La fine dell’eccezione torinese, la sindaca brava opposta alla collega meno fortunata di Roma, si è già consumata nel silenzio di questi mesi, con la scelta di rendere Torino capitale del No al Tav, un voto avvenuto in sua assenza. Il successo di questa manifestazione ha reso ancora più evidente l’isolamento dell’attuale giunta dal resto della città.

Chiara Appendino è stata la prima a capire che non poteva fare finta di nulla, come spesso le succede. «Al netto delle diverse sensibilità politiche» ha detto affidando la sua voce a quei social che per una volta sono stati la nemesi dei suoi Cinque stelle, «in piazza c’erano energie positive e idee condivisibili, per le quali la porta del mio ufficio è sempre aperta». Ma forse è tardi per i buoni propositi.

L’apertura della sindaca ha soltanto dato la misura della sua solitudine, perché nel giro di pochi minuti alcuni suoi consiglieri comunali hanno sbattuto quella porta chiudendo a qualunque ipotesi di dialogo. Chiara Paoli, consigliera comunale M5S, pasionaria del No alle Olimpiadi, del No alla Tav, ha usato la clava. «In piazza c’erano persone che hanno reso una barzelletta il nostro paese. Ascoltare chi vuole imporre interessi personali? Anche no». Il suo collega di Movimento Damiano Carretto ci ha aggiunto una punta di quel cospirazionismo che è stato il tratto dominante dei Cinque stelle locali alla vigilia della manifestazione Sì Tav. «Abbiamo perso troppo tempo per provare ad accreditarci con un sistema che pensava di manovrarci come dei burattini».

La verità è che c’erano tutte le associazioni di categorie, commercianti artigiani, industriali, un mezzo miracolo per chi conosce la litigiosità dei corpi intermedi torinesi. C’erano operai, studenti, maestre e avvocati d’affari, una piazza difficile da colorare o definire, figlia di una manifestazione davvero spontanea. Fino alla sera del 29 ottobre, appena dodici giorni fa invece non c’era niente che facesse presagire questa mescolanza così inedita. Solo sette donne che discutevano su Facebook, fino a quando una di loro ha avuto l’idea. «La piazza parla» dice Giovanna Giordano. Le madamìn che tali non sono vorrebbero avere udienza dal presidente Sergio Mattarella per chiedergli un garante super partes che vigili sulla analisi costi-benefici della Tav. Ritengono che per come è composta, la commissione nominata dal ministro Danilo Toninelli equivalga a un plotone di esecuzione dell’opera e in questo senso hanno il coraggio di dire quel che sostengono in molti. «Non si decide il destino di una regione giocando una partita truccata».

Piazza Castello è un segnale da non sottovalutare per il governo. Il messaggio che arriva da questa adunata spontanea è una richiesta di sincerità, pari trattamento per tutti, senza agnelli sacrificali. E infatti i trentamila non sono passati inosservati. Matteo Salvini sa che sulla Tav il compromesso è quasi impossibile, quindi utilizza anche lui lo specchio per allodole dell’analisi costi-benefici, nella speranza che il tempo passi. «Un’opera cominciata è sempre meglio finirla. Aspettiamo che gente più competente di me dica se costa di più andare avanti o tornare indietro». Toninelli al solito declina il verbo dell’ortodossia. «Nessuna lezione da chi ha lasciato solo problemi giganteschi da risolvere». Sarà un lungo inverno. La manifestazione si è chiusa con un appello che più piemontese non si può. «Vi chiediamo di avviarvi con compostezza verso le vostre case». Ma ieri, ancora una volta, almeno per un giorno, era Torino, Italia.

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